Il sistema elettorale in Italia


Premessa: non posso citare la fonte dell'intervento qui di seguito perché ne ho perso le tracce e mi scuso per questo. Anche dopo più di vent'anni, ritengo sia una nota importante per conservare memoria del percorso articolato e complesso della storia della legge elettorale in Italia. Dopo la riconferma del Presidente Mattarella di questi giorni sembra si ricominci a parlare di legge elettorale e mi sembra l'occasione giusta per ricordare che proprio a quest'ultimo si deve il primo esperimento realizzato dopo il referendum abrogativo promosso da Mario Segni. Nel 1993 attraverso questo referendum, nel quesito relativo alle Leggi Elettorali per il Senato del Parlamento, la maggioranza degli Elettori Italiani (partecipanti 77% sugli aventi diritto con risposta affermativa al 82,70%)  ha chiaramente espresso la volontà di orientare tali norme verso un sistema maggioritario volto a dare maggioranze parlamentari stabili che consentissero Governi duraturi in grado di poter affrontare la normale durata dei mandati prevista dalla Costituzione. Successivamente il lavoro svolto in materia di legge elettorale dai nostri rappresentanti eletti nel Parlamento durante questo lungo periodo non ha prodotto i risultati desiderati, al contrario è evidente che  la volontà espressa dagli elettori in tale occasione non è stata tenuta in alcuna considerazione

LA RIFORMA ELETTORALE: STORIA DI UN FALLIMENTO

(Novembre 2000)

La campagna per le elezioni politiche della prossima primavera è ormai iniziata e lo scontro tra i due schieramenti di centro-sinistra e centro-destra si fa sempre più duro. Sembra di conseguenza che non ci sia più nessuna possibilità di dialogo tra le forze politiche di maggioranza e di opposizione sul difficile tema della riforma elettorale. Mesi e mesi di estenuanti discussioni e continui "tira e molla" non sono serviti a raggiungere un accordo per riscrivere insieme le regole del confronto elettorale e per trovare quella "formula magica" in grado di soddisfare gli interessi dei tanti (troppi?) partiti e "partitini" che affollano il panorama politico italiano. Con ogni probabilità, dunque, Gli italiani sceglieranno loro prossimi rappresentanti al Parlamento con il sistema elettorale attualmente in vigore che, paradossalmente, tutti giudicano inefficiente. E pensare che questo sistema venne introdotto solo sette anni fa! Era, infatti, nel 1993 quando, in piena "Tangentopoli" e con i vecchi partiti politici ormai al collasso, la maggioranza dei cittadini decise, attraverso un referendum (18 aprile), di dire per sempre addio sistema proporzionale in vigore fin dalla nascita della Repubblica e giudicato da molti all’origine dei tanti mali del sistema politico italiano. Quando si trattò di scegliere un metodo nuovo alcuni avrebbero preferito voltare del tutto pagina e adottare un sistema maggioritario (o uninominale) puro, perché lo ritenevano il più adatto al raggiungimento di tre obiettivi: la semplificazione del sistema dei partiti, l’introduzione del principio dell’alternanza nella guida del Paese, e la tanto sospirata stabilità dei governi. Altri, specialmente i partiti più piccoli, vedevano nel maggioritario una minaccia al principio del pluralismo e della rappresentanza in Parlamento di tutte le forze politiche, anche di quelle che nel Paese avevano meno seguito in termini di voti. Alla fine, si giunse ad un compromesso. Per dare seguito alla volontà dei cittadini, espressa attraverso il referendum, venne approvata una nuova legge elettorale, la cosiddetta "Legge Mattarella" (o "Mattarellum" come sarebbe poi stata ribattezzata dai giornali), la quale prevedeva per l’elezione dei membri della Camera e del Senato un sistema misto con una forte componente maggioritaria (75%) "corretta" da una quota proporzionale (25%). Un sistema quello previsto dalla Legge Mattarella abbastanza complicato, che però sembrò favorire una ristrutturazione del sistema dei partiti su basi nuove. La prevalenza del maggioritario costrinse, infatti, le forze politiche a scendere a patti con la logica del bipolarismo e delle alleanze elettorali. Si formarono così due coalizioni contrapposte: nacquero il centro-sinistra e il centro-destra che si sarebbero sfidati nelle prime elezioni politiche indette con il nuovo sistema elettorale, quelle del 1994. In occasione delle elezioni del 1994, vinte dalla coalizione di centro-destra alleata con la Lega Nord, molti salutarono con entusiasmo la nascita della "Seconda Repubblica", ma dovettero ben presto ricredersi. Si trattò, infatti, di una "falsa partenza" del nuovo potenziale assetto politico. Dopo soli otto mesi di governo il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi venne costretto alle dimissioni per l’abbandono da parte della Lega della maggioranza governativa (il cosiddetto "ribaltone"). La seconda occasione venne offerta dalle elezioni politiche anticipate del 1996, la cui importante novità era costituita dal fatto che per la prima volta ciascuna delle due coalizioni indicava agli elettori il proprio "candidato premier" in caso di vittoria, consentendo così ai cittadini italiani di determinare, anche se indirettamente, chi sarebbe diventato Presidente del Consiglio. Se con il successo elettorale della coalizione di centro-sinistra e la successiva nomina di Romano Prodi a Presidente del Consiglio, si affermava il principio dell’alternanza alla guida del Paese tra forze politiche diverse per idee e programmi, gli altri obiettivi per il raggiungimento dei quali si era fatto affidamento ad un sistema prevalentemente maggioritario non erano stati raggiunti. La frammentazione politica, infatti, aumentò invece di ridursi, complice una fase di transizione mai conclusa e anche, in una certa misura, il persistere della quota proporzionale che offriva la possibilità anche a forze politiche piccole di avere comunque una rappresentanza in Parlamento. La nascita di nuovi "partitini" era quasi all’ordine del giorno e la coesistenza all’interno della maggioranza di tante forze diverse con posizioni spesso difficilmente conciliabili rendeva la stabilità del governo fortemente e continuamente a rischio (dal 1996 ad oggi si sono succeduti ben quattro governi di centro-sinistra). Si fece allora strada l’idea che la formula scelta nel 1993 per il sistema elettorale non fosse la più adatta e si iniziò a parlare di riformarla. Il tema della riforma elettorale venne così inserito nel più ampio dibattito sulle riforme costituzionali che ebbe luogo a partire dal 1996 nella Commissione parlamentare (la cosiddetta "Bicamerale") appositamente costituita e presieduta da Massimo d’Alema. Nel frattempo, si diffondeva in alcuni ambienti politici l’opinione secondo la quale, dopo "l’ubriacatura del maggioritario", fosse necessario tornare al vecchio sistema proporzionale. Questa tendenza proporzionalistica fu sottolineata da due fatti politici rilevanti. Essa venne alla luce innanzi tutto quando fu reso pubblico un accordo, inizialmente segreto, raggiunto dai vertici di alcuni partiti politici di maggioranza e di opposizione (giugno 1997), il quale suggeriva che molti elementi della futura riforma elettorale avrebbero dovuto garantire la sopravvivenza dei partiti più piccoli. Quello che in seguito passò alla storia come "il patto della crostata" (perché presumibilmente siglato mangiando una crostata a casa di uno dei collaboratori di Silvio Berlusconi) venne fortemente criticato sia per i suoi contenuti (il ritorno ad un sistema proporzionale puro) sia per il modo in cui era stato stipulato (al di fuori delle più appropriate sedi parlamentari) e molti lo considerarono come un segnale del ritorno alla "partitocrazia", vale a dire al governo dei partiti per i partiti e non per l’interesse del Paese, un modo di fare politica che aveva caratterizzato tutta la vita della quasi defunta "Prima Repubblica". Il secondo fatto politico rilevante fu rappresentato dalla reintroduzione del finanziamento pubblico ai partiti politici, abrogato dal referendum del 1993, che, di fatto, rafforzava i partiti più piccoli e la logica del proporzionale. In questa occasione molti giornali si diedero da fare per calcolare a quanti partiti, con la nuova legge, venissero assegnati fondi pubblici e si arrivò a calcolarne cinquanta! La voglia di proporzionale di alcune forze politiche, giudicata da molti un pericolo, e il fallimento dell’esperienza della Bicamerale dopo due anni di lavori (1996-1998) per l’abbandono del tavolo delle trattative da parte dell’opposizione di centro-destra, fecero crescere l’interesse di molti per la possibilità di proporre un nuovo referendum elettorale, questa volta per l’abolizione della quota proporzionale. L’obiettivo dei promotori del referendum era di dimostrare che la maggioranza dei cittadini italiani era favorevole all’introduzione di un sistema maggioritario puro (rimaneva da discutere se a turno unico, secondo il modello inglese, o a doppio turno, secondo quello francese) e di costringere quindi i politici ad agire di conseguenza. Mentre nella primavera del 1998 iniziava la raccolta delle 500.000 firme necessarie per promuovere la consultazione referendaria, le forze politiche si dividevano in schieramenti trasversali pro o contro il maggioritario puro. I partiti più grandi (Democratici di Sinistra, Forza Italia e Alleanza Nazionale) si mostrarono generalmente favorevoli, ma lo fecero in maniera poco chiara e spesso contraddittoria, nel timore di perdere l’appoggio dei partiti più piccoli "proporzionalisti" dal cui sostegno dipendeva la sopravvivenza delle coalizioni, ed in particolare di quella di centro-sinistra (il Partito Popolare, i Verdi e Rifondazione Comunista condannavano anche il minimo appoggio al referendum). Il referendum elettorale si svolse il 18 aprile 1999 e si rivelò un inaspettato fallimento. Il numero di voti necessario per la sua validità (il "quorum" corrispondente al 50% più uno dei voti validamente espressi) non venne, infatti, raggiunto. Benché fosse chiaro che l’orientamento di gran parte degli italiani in favore di un sistema maggioritario, molti cittadini preferirono non andare a votare incrementando così il già preoccupante fenomeno dell’astensionismo. Dopo l’insuccesso del referendum del 1999 il tormentato cammino della riforma elettorale fa ormai parte della cronaca politica degli ultimi mesi. La discussione sul nuovo sistema elettorale è approdata all’inizio della scorsa estate nella Commissione affari costituzionali del Senato. La speranza era di trovare una soluzione attraverso le vie parlamentari con l’approvazione di una nuova legge in tempi brevi. Ma il compito non si presentava per nulla facile poiché si trattava di trovare un accordo che godesse dell’approvazione la più ampia possibile tra le forze politiche presenti in Parlamento sia di maggioranza sia di opposizione. Le "regole del gioco" dovevano essere scritte insieme con il contributo e il consenso di tutti i partecipanti. Dall’iniziale progetto presentato dall’opposizione di centro-destra che prevedeva un sistema elettorale proporzionale sul modello tedesco (il cosiddetto "Urbani-Tremonti"), si è passati, attraverso una serie interminabile di proposte e contro proposte, ad un’altra possibile soluzione appoggiata dalle forze politiche di centro-sinistra che si basava su un sistema misto uguale per Camera e Senato con un premio di maggioranza del 20% alla coalizione che avesse raggiunto almeno il 40% dei voti. Una proposta giudicata dal centro-sinistra in grado di garantire sia la stabilità dei governi sia la fondamentale esigenza di pluralismo politico e che sembrava in un primo tempo trovare accoglienza positiva anche tra le forze di opposizione. Ma quando sembrava che si fosse ad un passo dal raggiungimento dell’accordo il dialogo tra maggioranza e opposizione a subito una battuta d’arresto fino a determinare il netto rifiuto da parte del centro-destra di qualsiasi ipotesi di ulteriore trattativa. Il progetto di riforma potrebbe a questo punto essere portato all’esame delle Camere ed essere approvato con i soli voti dei partiti facenti parte della coalizione di maggioranza. Ma questa ipotesi viene giudicata da gran parte delle stesse forze del centro-sinistra politicamente inopportuna, anche se costituzionalmente corretta. Non se ne farà probabilmente nulla e tutto verrà dunque rimesso nelle mani del nuovo Parlamento che uscirà dalle elezioni politiche della prossima primavera.

In conclusione, nell'anno 2022 alla vigilia del trentennale del referendum Segni e ben cinque tentativi di leggi elettorali, una peggio dell'altra, siamo alla casella di partenza con i politici che vogliono ritornare al proporzionale puro, il quale si è già dimostrato inadeguato per garantire stabilità politica e di programmi nel nostro Paese. E il popolo dorme pacifico e distratto.

 

Commenti

  1. fino a quando i nostri politici avranno come obiettivo primario quello di essere rieletti alle elezioni successive, non avremmo mai politici che lavoreranno per il bene comune dei cittadini. In Italia e non solo, politica=potere e potere=soldi. Se solo pensassimo a tutto ciò che quotidianamente scopriamo e che vede coinvolti politici e affini, ci renderemmo conto che tutto cambia affinché nulla cambi. Io concludo spesso questi pensieri e tormenti con una frase, forse sbagliata, ma che in qualche modo mi da un pizzico di sollievo: "E' il prezzo da pagare per essere liberi". So che forse è una fuga verso il rifiuto di fare altro, ma siamo veramente certi che possiamo concretamente fare altro?

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